“GRAVITY SESSIONS” di Rosetta West
- Ester
- 15 giu
- Tempo di lettura: 2 min

Emergendo dalla leggendaria scena underground di Chicago, Rosetta West torna con Gravity Sessions, un live set di sette tracce che sembra meno una retrospettiva e più una rinascita. Registrato quasi interamente nell'arco di alcuni giorni ispirati ai Gravity Studios sotto la guida di Doug McBride, questo album toglie la lucentezza dello studio per rivelare il nucleo della band: tre musicisti veterani in perfetta sincronia, incanalando decenni di esperienza in musica che sembra sia antica che immediata. Il disco si apre con "Dora Lee (Gravity), una magnifica rivisitazione di un classico precedente. Dal primo accordo risonante, la performance ti trascina: le linee di chitarra cariche di riverbero brillano contro una sezione ritmica tesa e trainante. La voce di Joseph Demagore è allo stesso tempo dominante e vulnerabile, attirando miti di amore e perdita in un rituale moderno. In questa ambientazione, ogni nota colpisce con precisione rituale: il passato e il presente si fondono in un'unica invocazione inquietante.
A metà strada, Gravity Sessions trova il suo battito cardiaco in "Suzie", una traccia che emerge come un elettrizzante stand-out. Qui, Rosetta West si appoggia a sfumature psichedeliche più audacemente di prima, tessendo corse di basso increspate e tamburi che si schiantano attorno a motivi di chitarra inebrianti. La registrazione dal vivo infonde alla canzone un bordo grezzo: strilli di diapositive occasionali ed echi di studio ambientali servono a ricordare che questa è musica nata in tempo reale, evocata piuttosto che costruita. Il risultato è un quadro fumoso: parti uguali di grinta e glamour, sudore e cerimonia. Mentre il set volge al termine, "Venous Blue (Gravity)" serve come una benedizione meditativa. La traccia si svolge lentamente, ogni accordo riverbera come un battito cardiaco in una sala vuota. Le linee di chitarra di Demagore fanno una spirale verso l'interno, forgiando un'atmosfera simile a una trance che offusca la linea tra suono e silenzio. Sotto tutto questo c'è un impulso costante dal basso di Herf Guderian e dalla batteria sfumata di Mike Weaver, un'insistenza gentile che tiene in alto la canzone.
Nei suoi ultimi momenti, la musica sembra svanire nella stanza stessa, lasciando dietro di sé una risonanza. In tutte le Gravity Sessions, Rosetta West dimostra che la loro magia è presente. Non ci sono sovraincisioni dietro cui nascondersi, non ci vuole un secondo per perfezionare la performance: ciò che senti è un documento di comunione tra musicisti e spazio. Ogni fiorire, ogni scivolata, porta peso, testamento a una banda che non ha paura dell'esposizione. Nel rivisitare il loro materiale attraverso questa lente dal vivo, Rosetta West non si limita a rivisitare il vecchio terreno. Scavano strati più profondi di significato, rivelando un centro spirituale che è diventato più ricco con il tempo. Gravity Sessions non è un viaggio nostalgico, ma una dichiarazione vitale di intenti, una dichiarazione squillante che, dopo tutti questi anni, la loro voce si alza ancora, non vincolata e risonante.
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